domenica 22 aprile 2012

No Latte, No parti. Elogio della colazione.

1980 e spiccioli. Prima ora di una mattina scolastica qualunque:
“Maestra, puoi portarmi a casa, per favore? Mia mamma ha dimenticato di darmi il latte. È facile: abito due strade sopra Benedetto Mineo”.

Proprio così, io all’asilo mi sentivo in esilio.

Per ironia della sorte il mio poi si chiamava “Voglio asilo” e io che invece proprio non ne volevo di asilo, chiedevo di essere rimpatriata utilizzando con astuzia quello che mi sembrava allora, e in fondo anche ora, un argomento inattaccabile.

Semplice: senza latte non si parte. 
O perlomeno, si parte male. Tanto male da rendere necessaria una bella marcia indietro. Con tanto di richiesta d’accompagnamento e opportune indicazioni stradali. 

All’epoca non abitavo a Ballarò, ma a “Baarìa” ed anche allora, come adesso, mi orientavo soprattutto grazie alla toponomastica dei negozi.
“Benedetto Mineo” era, per esempio, un inconsapevole precursore dei vari “tuttouneuro”, “CasaIdea” e“CasaViva”, noto ai Baarioti come rivenditore di “plastica di buona qualità”.

Io ai tempi del Non-Voglio asilo

giovedì 5 aprile 2012

È che Lo/la disegnano così


Io non sono cattiva; è che mi disegnano così  (Jessica Rabbit)


Giovedì Santo. Pasqua è alle porte ed ecco gli auguri, fin troppo tradizionali, da parte di Papa Joseph Ratzinger.

Nulla di nuovo sotto il cielo: un gruppo di sacerdoti austriaci pubblica in questi giorni un appello alla disobbedienza, portando degli esempi concreti di come possa esprimersi questa “disobbedienza”, in particolare fanno riferimento alla possibilità di una riconsiderazione della questione “Ordinazione sacerdotale delle donne” e Papa Ratzinger durante l'omelia di oggi, risponde richiamando all'ordine e ribadendo che «come lo stesso beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile, la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore».

Con un pizzico di politicamente corretto concede, poi, ai suddetti sacerdoti disobbedienti il beneficio del dubbio: «Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove, per riportare la Chiesa all'altezza dell'oggi».

Ma per il Pontefice le buone intenzioni non bastano a giustificare simili auspici.

Pertanto si chiede candidamente: «La disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di un vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?».

E pensare che il desiderio, evidentemente temuto dalla Chiesa ancora oggi, è “nostalgia della stelle”, stando a quanto suggerisce l'etimologia della parola, “de-sidera”.
Nulla di più propedeutico alla religione se solo, anche qui, si interpella l'etimologia latina “Religo = unire, mettere insieme” (il cielo delle stelle e la terra degli uomini, possibilmente).

Mi pare di rivedere la mia maestra di catechismo - indimenticabile Signorina Ciccina - mentre si cimentava con le origini latine della parola religione e me, all'età di 8-9 anni, che intanto immaginavo una sorta di Dio-Raperonzolo che gettava giù la treccia perchè “desiderava” essere raggiunto.
Solo la forza del desiderio avrebbe reso possibile l'impresa per gli scalatori e le scalatrici.
Le trecce sono prive di comodi pioli, da che mondo è mondo.
Ma nulla è impossibile all'Amor che move il sole e le altre stelle.
Il desiderio rende possibile far strada verso le stelle.

O attrarle.

Forse a 8 anni volevo immaginare la religione, l'unica che conoscessi, quella cristiano-cattolica, come una questione di movimento, non di ripetizione di esercizi sul posto.
Forse mi piaceva poter pensare che fu per desiderio che qualcuno, che autorizzava perfino prostitute e poco di buono di ogni sorta a dargli del Tu, scese dalle stelle.
Vorrei poterlo fare ancora.
Vorrei che me la raccontassero così, non più con corde vocali usurate dalla ripetizione e parole “politicamente corrette”, ma con muscoli brucianti per lo sforzo del movimento e gambe pronte ad arrampicarsi anche su poco rassicuranti scale senza pioli, piuttosto che sugli specchi della dottrina. 

Già in un'intervista a Messori, nel 1984 Ratzinger diceva: «Non siamo autorizzati a a trasformare il Padre Nostro in una Madre Nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile».


Pare che si tratti dunque di una questione di rappresentatività, Gesù era maschio, ergo chi lo rappresenta deve essere maschio. 
Anche l'occhio vuole la sua parte, insomma. 
Pura questione di immagine, pura interpretazione letterale del volere divino.

Peccato che come scrive Michela Murgia, nel suo bellissimo saggio Ave Mary:
Il simbolismo usato da Gesù è irreversibile" è una frase che pretende di rendere vero il suo contenuto per il solo fatto di esser stata enunciata. Ma pretende appunto. Per smentirla basterebbe ricordare che Gesù, nell'ambito della stessa area simbolica della paternità divina, ha espressamente chiesto ai discepoli di non chiamare nessuno Padre sulla terra, «perché uno solo è il Padre vostro che sta nei cieli». Eppure nessun Papa si è mai preoccupato di non farsi chiamare Santo Padre. (…) Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza, ma l'uomo e la donna a immagine di cosa si sono raccontati Dio?  
Così, mentre Ratzinger attende (?) eventuali autorizzazioni da Nostro Signore barattando, perfino nella scelta delle parole e nelle auto-descrizioni, il ruolo pastorale con quello da Burocrate del Regno dei cieli, io voglio tenere a mente con Michela Murgia che oggi, più che mai:
ci serve l'ironia di Jessica Rabbit per ricordarci che il destino di tutte le immagini, comprese quelle di Dio, è di finire distorte. L'irreversibile Ratzingeriano sembrerà tale solo finché continueranno a disegnarlo così.
                         (Michela Murgia, Ave Mary, Einaudi p.139)











lunedì 2 aprile 2012

Marjane e l'Integrità

Quasi per gemmazione Adrienne Rich e la sua “Integrità”, la poesia postata qualche giorno fa, mi hanno portata a pensare ad un'altra appassionata narratrice/ricercatrice di Integrità, Marjane Satrapi.

Questo frammento del suo Persepolis, mi pare prezioso:


Integro vuol dire intero, non diviso, non leso. Chi è integra è pura.
Pura: aggettivo pericoloso e spesso mistificato, credo. 
Troppo spesso inteso come sinonimo di semplicità granitica, tutta d'un pezzo, resistente alle ibridazioni.

Non è questa l'Integrità in cui voglio credere. Sa di integralismo e, come molti altri  -ismi.. puzza.

L'integrità ha a che fare con la complessità e con la possibilità di integrare le diverse parti di sé, senza estromissioni e rigetti.
E' molto più che coerenza. In fondo la coerenza è aderenza.
Mi sembra che l'Integrità, invece, abbia a che fare con la disponibilità a contaminarsi e rinnovarsi, rimanendo fedeli a se stesse anche quando questo vuol dire essere fedeli al bisogno di cambiare e fare la fatica di intrecciare il vecchio e il nuovo, senza scorciatoie.